L’Italia, l’ESC, il mercato musicale: colloquio con Alessandro Ragni

A pochi giorni dal via dell’avventura italiana all’Eurovision 2013 l’occasione è buona per fare due chiacchiere con Alessandro Ragni, il discografico che è una sorta di fil rouge fra le tre ultime partecipazioni azzurre e che quest’anno è nella delegazione in veste di consulente Rai. E il discorso con lui spazia anche al di fuori dell’ESC, toccando il rapporto fra mercato musicale ed internazionale.
Il suo cammino eurovisivo è cominciato con la Sugar, poi con la Universal, se non andiamo errati sempre come discografico. Come è nato il tuo coinvolgimento e poi che idea si è fatto dello show vedendolo dal vivo, a livello musicale e di spettacolo.
E’ corretto, il mio primo contatto con Eurovision è avvenuto da discografico. Tutto è’ accaduto a Sanremo 2011 quando la Rai ci ha chiesto se volevamo portare Gualazzi e in poche ore abbiamo deciso di accettare. Il fatto che si svolgesse a Dusseldorf è stato senza dubbio un elemento importante dato che avevamo già iniziato a costruire il profilo di Raphael sia in Francia che in Germania.
Avevamo capito che sarebbe stata una grande possibilità di allargare la visibilità dell’artista. Quando siamo arrivati a Dusseldorf è stato come essere lanciati in un frullatore, una specie di Sanremo all’ennesima potenza. Devo dire che dopo l’iniziale sorpresa ci siamo divertiti molto e l’interazione con gli altri artisti e’ stato sicuramente un elemento stimolante. Musicalmente credo che in questi anni si sia creato troppo un genere Eurovision.
Se mi viene in mente un paragone e’ quello coi Sanremo di qualche anno fa: c’erano troppi artisti che appartenevano più al target televisivo dello show che alla reale scena artistica della discografia e dei media ad essa collegati. Nonostante gli alti numeri di audience se l’Eurovision vorrà essere il vero festival della musica europea dovrà alzare la qualità artistica delle proposte pur nel rispetto delle diversità che rendono unico l’evento.
Come è nata la sua collaborazione con la Rai?
La collaborazione con la Rai e’ venuta di conseguenza. Nei due anni precedenti si è creato un bellissimo rapporto con il team di Relazioni Internazionali ed Istituzionali. Quest’anno mi hanno chiesto di far parte della squadra ed ho accettato con grande piacere.
Nel 2011 la Sugar ha sfruttato molto bene l’esperienza eurovisiva e il singolo ha avuto successo a livello internazionale. Cosa non ha funzionato l’anno scorso nella promozione all’estero del brano (Nina Zilli disse a noi che era un po’ un test per capire se ci fosse la possibilità di esportare il brano). Perché all’estero (a livello di vendite) quel sound più europeo non ha funzionato allo stesso modo?
Il risultato di top 10 è stato di tutto rispetto e nella settimana successiva il brano era in classifica su Itunes in moltissimi paesi. La musica non è una scienza esatta ma credo che il fatto che nei mesi successivi Nina fosse molto impegnata in Italia (il suo calendario era già pieno quando le è stato chiesto di partecipare) non abbia aiutato a cavalcare l’onda positiva che si era creata attorno a lei. Succede. Lavorare all’estero è una gara di resistenza, richiede molto tempo e molta dedizione ai singoli mercati.
Nei primi due anni è stato molto difficile trovare case discografiche disposte ad investire sulla rassegna. Perché secondo te in Italia non si riesce ancora a fare breccia con questa rassegna fra le etichette? Colpa dell’italocentrismo musicale che abbiamo?
Non credo che sia questione di italocentrismo. Semplicemente reintrodurre un format che è stato assente per molti anni richiede tempo. In più come dicevo poc’anzi, l’Eurovision si porta appresso una sorta di reputazione “non qualitativa” e poi la crisi del settore ha fatto si che si investa sempre meno sul lavoro all’estero.
La percezione sta lentamente cambiando però. E’ un palco da quasi 100 milioni di spettatori. Se hai un progetto valido da comunicare è un’occasione straordinaria per farti conoscere e fare in una settimana quello che richiederebbe mesi. Proprio come Sanremo. E’ uno strumento, se lo usi bene ti da una popolarità immediata che difficilmente potresti ottenere.
Allargando il discorso all’esterno dell’Eurovision: l’Italia fatica ad esportare le nostre produzioni musicali all’estero, fatta eccezione per pochi grandi big, mentre invece all’estero i prodotti vengono esportati più facilmente. Come mai secondo lei? Perché quando all’estero si parla di musica italiana, il pensiero corre sempre agli anni ’60 oppure ai nostri evergreen e difficilmente qualcuno cita le produzioni contemporanee?
Si fa fatica per molti motivi, difficili da condensare in poche righe. Costruire una carriera all’estero richiede molti investimenti e molto tempo. Negli anni ’50 e ’60 il mercato lo guidavano gli editori, e di conseguenza la centralità era la canzone, il supporto era un mezzo per far viaggiare le canzoni, si facevano più cover e l’artista spesso arrivava già con una storia alle spalle grazie ad altri artisti locali che avevano aiutato a far conoscere la sua musica, questo oggi si è un po’ perso.
Le major hanno sempre meno personale e risorse per intraprendere un percorso del genere. In più esiste una burocrazia “meritocratica” che impone di aver raggiunto certi livelli nel proprio paese prima che l’ufficio centrale di una major consideri un artista proponibile alle altre affiliate. Poi ci vuole la dedizione dell’artista a mettersi in gioco e ripartire da capo. Il nostro bacino di utenza interno è sempre più piccolo e i numeri che generiamo sono esigui rispetto ad altri mercati. Quando sei in ufficio di una major e lavori i prodotti che ti arrivano dall’estero c’è un sistema di priorità: prima le global priorities, poi comunque viene il repertorio anglo-americano, poi quello latino che sa spesso generare numeri importanti perché lo spagnolo è la seconda lingua al mondo. Poi il resto.
La Francia ha un vantaggio su di noi, un mercato che ancora genera numeri alti e un governo che aiuta finanziariamente le case discografiche ad esportare musica. Qui Lo stato non aiuta anzi spesso vessa il mercato della cultura e i nostri istituti italiani di cultura hanno pochissime risorse. Paradossalmente è più semplice nel mercato indie o di genere (jazz, metal etc). Per costruire un artista pop ci vogliono molte risorse, come dicevo è una gara di resistenza che i tempi di crisi non aiutano.
Discorso inverso: in Europa molti brani eurovisivi sono entrati in classifica, non ultimo quello della vincitrice che ha conquistato la vetta in 18 paesi e 10 dischi di platino. Perché in Italia questo tipo di produzioni che funzionano in tutta Europa (e in genere molti altri brani europei, al di là della manifestazione, che vanno bene dovunque) non fanno breccia (posizione massima della vincitrice da noi, numero 54)?
Vale lo stesso discorso. Se a livello locale nessuno lavora quegli artisti, succede poco o niente e le cose si spengono rapidamente. Sicuramente deve migliorare la percezione dell’evento in Italia per far si che possa generare spontaneamente buoni risultati. Però non è solo questione di gusto, conta anche il lavoro che c’è dietro.
Tornando all’Eurovision: da tempo molti sostenevano che Mengoni potesse essere il candidato giusto e adesso è stato scelto. Come si è arrivati a lui?
Diciamo che ci è sembrato anche a noi l’artista giusto. Grande voce, ottima presenza sul palco, molto italiano ma con una forte vocazione internazionale. Nella rosa di nomi che avevamo in mente era al primo posto. Non possiamo che essere grati a lui, al suo management e alla Sony di aver accolto con entusiasmo il nostro invito.
Quanto tempo ci vorrà secondo lei perché l’Eurovision cominci a far breccia sui nostri teleschermi e non sia più un evento di nicchia e perché l’Italia possa provare a giocare “per vincere” (scrollandosi di dosso le leggende metropolitane che l’evento è un salasso a perdere, smontate dalle esperienze recenti degli ultimi paesi ospitanti)?
Già dall’anno scorso non siamo più un evento di nicchia anche se i margini di crescita sono ancora ampi. Me ne accorgo per strada, due anni fa se parlavo di Eurovision la gente sgranava gli occhi oggi mi risponde, fa commenti, mi cita alcuni artisti, si ricorda le performance più bizzarre. Vale come per certi sport minori, gli italiani si appassionano quando si vince. Che sia arrivata l’ora?
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Io credo invece che si stia iniziando a cambiare rotta per quanto riguarda l’europop. Albania 2012 insegna… se hai la qualità non c’è europop che tenga. Idem per Gualazzi!
Cmq io metterei la firma che questo team Rai se ne occupi per anni ed anni… grandi professionisti! Complimenti! Ehm… l’anno prossimo Malika o Mario Biondi?! Ah, ah…! Magari!
“Quanto tempo ci vorrà secondo lei perchè l’Eurovision cominci a far breccia sui nostri teleschermi e non sia più un evento di nicchia?”
La risposta l’ha già data qua
“Musicalmente credo che in questi anni si sia creato troppo un genere Eurovision.”
Il punto è solo quello. E il problema è che buona parte degli “hardcore fan” – che in qualche modo rientrano anche nelle giurie – invece vogliono proprio e solo quello. Una manifestazione di sola musica europop.